Il licenziamento discriminatorio rientra nel novero di quegli atti, particolarmente odiosi, con cui il datore di lavoro intende colpire il lavoratore, al fine di discriminarlo per ragioni sindacali, politiche, religiose, razziali, di lingua, di sesso o di orientamento sessuale, di handicap, di età, o per le sue convinzioni personali.
Questi fattori sono elencati in quella che è considerata, opportunamente, la norma cardine per l’individuazione del concetto di licenziamento discriminatorio: l’art. 15 dello Statuto dei lavoratori. I fattori contenuti nell’art. 15 St. lav. sono tassativi o esemplificativi? Secondo parte della dottrina questi sarebbero solo esemplificativi, poiché la legge non contiene il rinvio ad importanti divieti di discriminazione (sieropositività all’HIV; stato di gravidanza; martenità o paternità…).
Questa norma è espressione di una concezione oggettiva di discriminazione: quello che rileva, ai fini probatori, sono le conseguenze concrete prodotte nella sfera del lavoratore, penalizzato dagli atti o dai patti che hanno come scopo quello di colpire la sua persona per una delle ragioni sopraelencate.
Dal punto di vista probatorio, il lavoratore dovrà provare in giudizio che la condotta del datore di lavoro ha determinato che egli sia trattato diversamente rispetto alla situazione in cui si sarebbe trovato un altro lavoratore (c.d. tertium comparationis) nei confronti del quale non si dia il fattore di protezione leso.
Ciononostante, bisogna sottolineare che la giurisprudenza costante della Corte di Cassazione, salvo qualche eccezione (Cass., 5 aprile 2016, n. 6575, Riv. it. dir. lav., 2016, II, pag. 729), ritiene che debba essere fornita anche la prova dell’intento soggettivo del datore di lavoro, con assimilazione di questa fattispecie a quella del licenziamento per motivo illecito.
Qual è il trattamento sanzionatorio del licenziamento discriminatorio? Quale che sia la dimensione dell’azienda, se il giudice accerta la natura discriminatoria del licenziamento, ne dichiarerà la nullità e condannerà il datore di lavoro a reintegrare il lavoratore sul posto di lavoro e a corrispondergli il risarcimento integrale dei danni, pari alle mensilità di retribuzione che avrebbe dovuto percepire dalla data del licenziamento sino a quella della effettiva reintegrazione e non inferiore a cinque mensilità di retribuzione. Per il medesimo periodo, il datore di lavoro è condannato al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali. Il lavoratore ha la possibilità di optare, in luogo della reintegrazione, per un’indennità corrispondente a quindici mensilità di retribuzione.